~Nel racconto è la storia di una completa stortura psicologica: meglio ancora, lo studio di un animo disdegnoso e strano, durezza, esagerata severità, misantropia si mescolano a un pressochè infantile e altrettanto egoistico bisogno dell'amore altrui. E se di durezza e severità sono vittime i primi figliuoli del protagonista, cresciuti nell'indifferenza del suo contorto e introverso bisogno dell'affetto diventa vittima Teresita, l'ultima nata, verso la quale il padre si riserva con la possessiva e capricciosa tenerezza di chi, più che d'amore, pretende d'essere amato. Nel Ferrro domina, fino ad assumere forme maniache, un senso atavico della dipendenza dei figli dal padre e del diritto che questi si riserba di farla da padrone del loro animo e della loro sorte. Più felice , tuttavia, riesce il personaggio di Teresina, nella sua tenerezza filiale e nel suo destino di vittima. Il Ferro, con le mani dietro la schiena, camminava tutto il giorno su e giù per la stanza come un carcerato. Appariva a tratti alla finestra, dava un'occhiata fuori, voltava bruscamente le spalle e riprendeva a camminare col suo passo cadenzato come il battito d'un orologio. I ragazi, quando lo vedevano, coi capelli bianchi ritti sulla fronte e gli occhi grigi, si nascondevano dietro un grosso macigno che era rotolato dall'alto della montagna fin sotto alla sua finestra. Le donne di casa, la moglie e le due figlie, stavano tutto il giorno in cucina, zitte e scalze, e di loro non si sentiva che qualche sospiro. Lo servivano, gli mettevano le scarpe, inginocchiate ai suoi piedi, lo lasciavano mangiare solo,sempre attente che non echeggiasse la sua voce iraconda. Egli chiamava; "Signora Saveria!" quando chiamava la moglie; ella accorreva tremante e inchinata, è stava a sentire immobile i suoi ordini e la gragnuola delle sue frasi risentite. Egli aveva in uggio tutto il mondo, e bastava andare a chiedergli un consiglio per tornare umiliati e irritati dalle male parole. Ammetteva alla sua presenza soltanto il figlio piú piccolo, quello chegli somigliava di piú e che aveva destinato agli studi. Altri due figli piú grandi, appena in età di saltare li fece pastori. Il figliolo privilegiato lo stava a guardare ore interecome andava su e giú, facendo a tratti qualche gesto quasi per togliersi di dosso un che di fastidioso. La mattina, chiuso nella sua stanza, sentiva riviveretutta la casa: era come un fremito che s’impossessava ditutto, coi vetri che tintinnavano, con le scope che strisciavano a lungo, come se fuori piovesse a scrosci piúforti e men forti. Poi sentiva la voce della moglie chesvegliava la bambina piú piccola, Teresita, con la dolcezza di chi distoglie una persona amata da un’illusione: eraun gorgheggio, un richiamo, un discreto richiamo tra un bosco dove qualcuno si fosse smarrito o nascosto. Tuttele mattine egli notava, era una musica nuova, qualchecosa di bizzarro e di capriccioso che la madre sapeva in-ventare. Dopo aver fatto il trillo dell’usignuolo, il miagolio del gatto e il tubare della voce materna, chiamava pernome la bambina: «Teresita, Teresita», e la distoglievacosí dal sonno, fino a che quella balzava su richiamatadal ricordo improvviso e urgente delle cose che aveva lasciate alla veglia. Poi non si udiva piú nulla. La piccina faceva una grande fatica a orientarsi; tutta la casa pende-va sul suo silenzio, e sulle sue prime parole roche, sulsuo visino ancora impigliato, nel groviglio del sonno, aun sogno che l’attraeva ancora come fosse ancora vero. Il padre, il Ferro, aspettava con un segreto piacere: ellasi avvicinava alla sua porta, col passo strascicato e incerto, ed era come gli camminasse sul petto. Si vedeva, disotto l’interstizio della porta, l’ombra della piccina assottigliarsi e allungarsi fra l’alta luce che irrompeva dafuori, e sull’altalena delle ombre convergenti in cui sitrasmutava tutto quello che si moveva nella casa, ellaavanzava finalmente, e diceva: «Papà, papà». Egli la lasciava fare e taceva. Fino a che la piccina cominciava a picchiare, in ritmo sempre piú alto come unafrase musicale. Ta–ta–ta–ta. Ta-ta-ta-tà. Poi batteva coipiccoli pugni, con la mano aperta, col ginocchio nudo. Il Ferro ascoltava e rideva fra sé e sé. Quella sofferenza equell’attesa gli davano un piacere infantile. Apriva la porta, l’afferrava tra le braccia, se la faceva sedere accan-to, sul letto, e le domandava: «Che cosa hai sognato?Vuoi bene al tuo papà?» Su questa domanda era solito insistere: «Vuoi bene al tuo papà? Quanto gli vuoi bene? Molto? Quanto?» «Quanto voglio bene al sole, alla luna», ella rispondeva, «quanto agli occhi, quanto al pane, quanto al cielo». Egli non si stancava di ascoltarla, e le faceva ripetere all’infinito quelle proteste d’amore, lui che non era abituato a sentirne. Poi si levava, i suoi occhi grigi ridiventavano protervi, la sua bocca riprendeva la piega amara del disprezzo. Teresita tornava piccola piccola con la mamma in cucina, e sapeva che non poteva piú mostrarsi perché il padre l’avrebbe sgridata. Egli voleva soltanto che lo svegliasse la mattina dicendogli che gli voleva bene. Quando la rivedeva vestita, con la treccina stretta al sommo del capo, col visino assorto delle bambine che aspettano qualche cosa, provava lo stesso sentimento che aveva verso le altre figliole una specie di animosità inconscia, come se quelle fossero sogni suoi finiti male.Poi maritò le piú grandi mentre la Teresita era ancor piccola, e andava rimuginando a chi l’avrebbe data: vi pensava, e sentiva che avrebbe odiato il marito di Teresita. Intanto ordinò ai figli piú grandi che si trovassero lavoro fuori: uno lo arruolò fra le guardie di finanza, e quello strillava che voleva rimanere in paese a lavorare la terra; l’altro scappò di casa una notte e non si seppe piú nulla di lui. Una fretta irragionevole lo prese di fronte alla vecchiaia, e non fu contento se non quando la casa fu vuota, quando tutti se ne furono andati chi di qua chi di là, e che però si ricordavano di lui e della sua durezza con una specie di tenero accoramento verso l’infanzia passata fra tanta inutile severità. Tutti fuori di casa, e lui, solo, inquieto come un vecchio leone. Anche il figlio prediletto, appena avuta una professione, lo abbandonò perché si volle sposare. Questo fu per il vecchio il piú gran dolore. Chi gli voleva bene, ormai? Uscí di casa per ultima, data a un contadino ricco, la Teresita, divenuta una bella ragazza. Gliela diede con rabbia. Rimaser soli, nella casa, lui e la moglie, uno di qua e l’altra di là, senza mai vedersi o quasi, perché egli seguitava a dormire solo e a mangiar solo. Il giorno dopo le nozze di Teresita, il Ferro aveva finito col vestirsi tardi, irritato e sorpreso di non vedere piú, come al solito, la figlia. Alla moglie che lo stava calzando si mise a domandare: «Che ne è della Teresita e di suo marito? Non viene a salutarmi? Non vengono a baciarmi la mano per ringraziarmi di averli uniti? Quel mascalzone crede di potersi dispensare dalle buone usanze? Che cosa sono divenuto io? Io sono capace di farlo arrestare. Non mi vuole piú bene nessuno; nessuno mi vuole piú bene». Non c’era modo di fargli tenere fermo il piede per infilargli la scarpa. «Buono, buono», diceva la moglie «verranno, verranno certo piú tardi a salutarvi e a chiedervi la benedizione». Arrivarono difatti che il sole era già alto. La Teresita si mise a picchiare disperatamente, ma il Ferro ordinò che non si aprisse, e diceva:«Snaturati! È questa l’ora di levarsi? È questa l’ora di venire a chiedermi la benedizione? Non apro, non voglio aprire. Nessuno mi vuole piú bene, Teresita». Ma ebbe il coraggio di lagnarsi fino a che restò chiusa la porta. Quando si decise ad aprire, sedette solennemente su una sedia e vide avanzare lo sposo con la faccia storta e contrariata dietro le spalle di Teresita. Si misero in ginocchio ai suoi piedi ed egli li benedí non senza mettersi poi a leticare col genero: che lasciasse venire da lui tutte le mattine la Teresita a svegliarlo, altrimenti non si sarebbe piú levato dal letto. Teresita era bellissima, con gli occhi chiari, e una dolce stanchezza nello sguardo. Egli sospettò che fosse felice e ne ebbe dispetto. Le domandò: «Sei contenta?» Ella annuí con un gran cenno del capo. Allora egli divenne furibondo: «Dove me la porti questa figliola, mascalzone! Tu non te la meritavi; tu sei uno stupido: tu finirai in carcere». Erano abituati alle sue parole grosse e non vi facevano caso. Tentarono di consolarlo, ed egli non chiedeva di meglio che d’esser consolato, circondato di premure, sentirli discorrere di lui sottovoce; domandarsi che cosa potevano somministrargli per calmarlo. Al primo bicchier d’acqua rinvenne, e li vide che si scostavano lungo le pareti della stanza per lasciarlo passeggiare. Da allora, tutte le mattine Teresita si levava, in fretta e correva come sempre, alle sette, a svegliarlo. Egli risentiva la sua voce e il suo tocco, e questa volta fuori della porta di casa. La lasciava picchiare e si ravvoltolava nelle coperte. Ella cominciava a parlare per persuaderlo ad aprire, per potergli dire buon giorno, per dirgli che gli voleva bene e servirlo. Egli taceva, e gli veniva da ridere, contento, udendo che la voce di lei era sempre quella d’un tempo, una tenera voce che usciva dal suo petto maturo come di sotto un velo. Alle volte si addormentava di nuovo per pochi minuti, ed era dolce dormire sapendosi vigilato. Sapeva che Teresita sedeva sullo scalino della porta; di quando in quando metteva le labbra al buco della serratura e chiamava: «Papà, papà». Quella voce arrivava a lui deformata dalla cavità attraverso cui passava, e lo faceva ridere, come se si trattasse d’un gioco di ragazzi. Alla fine apriva, ed ella entrava umile e sottomessa. Venne l’inverno, le strade del paese in pendio divennero torrenti, la neve sulle montagne brillava nuova.Una mattina il Ferro aspettava che Teresita picchiasse alla porta. Pareva che fosse il vento e non era: era lei che batteva e chiamava, come travolta dalla tempesta: «Papà, papà! Aprite, sono io». Egli fingeva di non udire, e sentiva la rabbia della pioggia che si allontanava e si avvicinava a seconda del vento, e il brontolio frettoloso del torrente che si rompeva davanti agli argini della porta. «Papà, papà!» Egli pensava: «Se apro subito, per lei sarà troppo facile. Che picchi ancora. Se mi vuol bene starà sotto la pioggia e aspetterà». Ella seguitava a battere, disperatamente, e si sentivano le sue nude mani bagnate contro la porta. «No, non aprite», ammoní egli alla moglie. «Ve lo dico io quando dovete aprire». Alla fine aprirono. Ella entrò vacillando, bianca come la cenere, col viso umido di pioggia, i piedi rossi. Sedette ai piedi del padre come un povero animale, e si mise a piangere poggiandola guancia alle sue ginocchia. Disse: «Lo sapete che ho fatto un bambino questa notte?» Un filo di sangue le scorreva sulla caviglia nuda, sul piede nudo. «Ho sonno», aggiunse, «e mi sento male. Mi avete fatto aspettare tanto, là fuori». Egli si mise a carezzarle i capelli umidi, come quando era piccola. Ella stravolse gli occhi e disse in un soffio: «Non volevano lasciarmi, ma io per forza sono voluta venire. Sono saltata dal letto di nascosto,quando non mi vedeva nessuno». Divenne smorta, pesante. Egli le carezzava i capelli e le diceva: «Sí, sí, lo so che vuoi bene al tuo papà». Ma poi sentí che ella non si muoveva piú, come se dormisse. Aveva l’occhio azzurro spalancato e senza sguardo. Il Ferro allora si mise a gridare come un bambino spaventato, e la scoteva inutilmente: «Chi mi vuole piú bene, ora, Teresita, chi mivuole piú bene?» Corrado Alvaro - Gente in Aspromonte - Ediz. Garzanti